Medici e operatori sanitari dovrebbero essere in prima linea nel contrasto ai cambiamenti climatici, date le pesanti conseguenze sulla salute ad essi associate. Tanto più che l’assistenza sanitaria, con il 4-5% del totale, contribuisce in modo significativo alle immissioni in atmosfera di CO2. Purtroppo però il settore sanitario, perlomeno in Italia, sembra essere tra quelli meno sensibili, come se la produzione di CO2 non lo riguardasse.

Antonio Bonaldi, Sandra Vernero, Guido Giustetto e Roberto Romizi, nell’articolo “L’impronta ecologica dei servizi sanitari: cosa dovrebbero fare i professionisti della salute” pubblicato nella rivista “Il Cesalpino” dell’OMCeO di Arezzo, indicano possibili interventi che dovrebbero essere indirizzati su più fronti: ridurre le emissioni di gas-serra delle strutture sanitarie; limitare i trasferimenti e migliorare l’efficienza dei trasporti; ridurre il volume dei rifiuti sanitari; promuovere un’alimentazione sana e sostenibile; contenere l’inquinamento ambientale da farmaci e gas anestetici e ridurre esami e trattamenti non necessari.

A questo proposito il progetto di Slow Medicine “Fare di più non significa fare meglio – Choosing Wisely Italy”, cui hanno aderito più di 50 società scientifiche di medici, infermieri, farmacisti e fisioterapisti, contiene 280 raccomandazioni relative ad esami, farmaci, trattamenti e procedure ad alto rischio d’inappropriatezza, che rappresentano un ingente fonte di spreco e un danno all’ecosistema oltre che un possibile danno alle persone a cui sono indirizzate.

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