di Giorgio Bert

Due eccessi: escludere la ragione, non ammettere che la ragione.
(Pascal)

Nel 1994 un fisico americano, Alan Sokal, pubblicò un articolo dal titolo “Trasgredire le frontiere: verso un’ermeneutica trasformativa della gravitazione quantica”. Per quanto era possibile capire nonostante l’impiego di un gergo tecnico astruso, l’autore intendeva portare un duro attacco alla scienza e alle sue discutibili pretese di obiettività e di rigore metodologico.

L’articolo era in linea con una certa tendenza alla moda e venne quindi accolto con molto entusiasmo da parte di quegli scienziati ed epistemologi “antiscientisti”, per i quali la scienza era niente più che “una superstizione di alto livello” o una pura e semplice figura del potere.

Entusiasmo malriposto: lo stesso Sokal infatti rivelò che il suo scritto non andava preso sul serio in quanto si trattava di una parodia ironica delle idee antiscientifiche assai diffuse in determinati ambienti, e che l’uso di un linguaggio incomprensibile era assolutamente deliberato, in quanto tipico di quelle teorie. I suoi bersagli erano infatti l’idea (tuttora corrente) che la scienza sia una “narrazione” come le altre, così che tutte le conoscenze e tutti i punti di vista in fondo si equivalgono; e l’abuso di un linguaggio oscuro teso a trarre da concetti fisici o matematici conclusioni filosofiche e politiche: tecnica questa che ha spesso successo con un pubblico (che è poi la maggioranza) privo di cultura scientifica.

L’idea che la ragione sia solo uno tra i tanti strumenti conoscitivi, e forse neanche il migliore, è tuttora largamente diffusa: i critici più colti amano citare in proposito (e qualche volta a sproposito) Nietzsche, Deleuze, Derrida, Lyotard, Foucault e altri filosofi considerati “relativisti”. Altre persone, meno acculturate, basano le loro critiche sul fatto che opinioni non scientifiche siano largamente condivise: se milioni di persone sono convinti che i dischi volanti esistano e siano guidati da alieni che talora rapiscono i terrestri; che la teoria darwiniana dell’evoluzione sia troppo carente e misera per spiegare la vita in assenza di un creatore o almeno di un disegno intelligente; che certe terapie di non provata efficacia funzionino comunque; che esistano statue che piangano e compiono miracoli… allora che bisogno c’è di prove scientifiche? Non è più che sufficiente l’ampio numero di “testimoni”?

E’ il mito della verità come “accordo intersoggettivo”: su basi del genere in altri tempi sono stati considerate vere l’influenza degli astri sulla salute, la stregoneria, oppure ipotesi mediche fantasiose come i “miasmi”, i salassi o l’orvietano; in assenza di un metodo scientifico razionale basato sull’osservazione e sugli esperimenti saremmo tuttora fermi a quelle convinzioni.

Di fatto la ragione non è uno strumento conoscitivo “come gli altri”: è il solo strumento che ci permetta di distinguere tra ipotesi probabili, ipotesi meno probabili e pure e semplici sciocchezze. Ed è ancora la ragione quella che permette di smascherare i dati manipolati o inventati, i disegni sperimentali scorretti, le truffe vere e proprie: è la ragione insomma l’antidoto nei confronti delle cosiddette “bufale scientifiche” . In assenza di questo potente filtro tutto diventa egualmente possibile e sostenibile: il DNA come la memoria dell’acqua, le nuove frontiere della neurobiologia come le false staminali coreane, il creazionismo come la teoria dell’evoluzione.

Quanto detto farebbe pensare che la ragione, quella scientifica in particolare, sia una guida sicura, la via maestra seguendo la quale non ci sia spazio per dubbi e incertezze…  ma è davvero così? Come osserva Alan Lightman, fisico nel prestigioso Istituto di Tecnologia del Massachusetts (MIT):
“A noi scienziati è stato insegnato fin dall’inizio del nostro apprendistato a non perdere tempo con domande che non abbiano una chiara e definita risposta.
Gli artisti e gli umanisti invece, della risposta non tengono conto perché non esistono risposte chiare e definite a tutte le domande davvero interessanti e importanti. Le idee in un romanzo o le emozioni in una sinfonia sono complesse per via dell’ambiguità intrinseca alla natura umana.”

Dovremmo pensare che esistano due culture tra loro distinte e separate: una cultura scientifica, basata sulle certezze, che produce conoscenza e una cultura umanistica, piacevole, “da coltivare per nostra edificazione e diletto” ma niente di più? È quel che afferma ad esempio il genetista Edoardo Boncinelli, precisando: “Bisogna rendersi conto che quella (la letteratura) non è conoscenza; conoscenza, intendo dire, sulla quale fare affidamento.”

Il mondo “serio” è quindi un mondo  scientifico: potremmo definirlo come un mondo “tutto all’indicativo, in  cui il congiuntivo è scomparso non solo dalla sintassi ma anche dalla cultura”. Il congiuntivo è infatti il modo verbale della possibilità, del dubbio, del relativo, del “come se”. L’indicativo è il modo della certezza.

È stato spesso osservato come alla graduale sostituzione del congiuntivo con l’indicativo corrisponda la perdita della consapevolezza che ogni giudizio è soggettivo, ogni affermazione provvisoria, ogni scelta una scommessa.

 “Io penso (presumo, spero, temo) che oggi piova”: una possibilità, una probabilità magari: comunque non una cosa sicura. La successiva scelta (prendo l’impermeabile o l’ombrello) è una scommessa: se il tempo volge al bello, con quel trench più che Humphrey Bogart sembrerò un esibizionista.

Naturalmente posso anche decidere di comportarmi “come se” non dovesse piovere, a rischio di tornare a casa grondante.

Dubbio. Incertezza. “Come se”.

Il congiuntivo è il modo della soggettività, della relatività nei giudizi, dell’assunzione di responsabilità nell’incertezza.

Una frase come “Penso che tu faccia una sciocchezza” segnala che il giudizio è di  colui che parla e solamente suo (“IO penso che…”), riferibile quindi al suo specifico quadro cognitivo che non pretende di essere universale.

Il significato cambia nettamente col passaggio all’indicativo: “TU fai una sciocchezza”.

L’accento è ora posto sul TU, non più sull’IO; la cornice cognitiva di chi parla è implicitamente quella giusta, cioè la sola possibile; la frase va quindi letta come “TU sei uno sciocco”, senza se e senza ma.

Il passaggio unidirezionale dall’ io al tu cambia molte cose in una relazione.

Il mondo delle (quasi) certezze esiste, naturalmente, ma è limitato all’evidenza e in ogni caso è definito da una cornice cognitiva specifica, per quanto ampiamente condivisa: “Oggi è martedì (per chi segua il nostro calendario); “Ieri è stata una bella giornata” (in provincia di Torino).

Quando però si tratti di dare giudizi, di prendere decisioni, di fare delle scelte il nostro è il mondo del “come se”, il mondo del congiuntivo. Anche nella più piatta routine, la vita è una sequela di scommesse.

Certo, la capacità di porsi degli obiettivi chiari e realistici, l’abilità di individuare delle priorità ragionevoli e dei percorsi sensati rendono più facile vincerle, quelle scommesse; e tuttavia scommesse rimangono. Anche le previsioni più razionali possono fallire, mentre il caso può portare al successo scelte apparentemente impossibili.

Esistono poi situazioni e contesti in cui è giusto e doveroso (o semplicemente obbligatorio) rischiare. Limitarsi alle sole decisioni potenzialmente sicure rende la vita noiosa e non garantisce niente, come del resto mostra già l’ossimoro (sicurezza “potenziale”?).

Essere in ogni momento coscienti che ci muoviamo tra dubbi e incertezze è necessario: il sogno di un percorso semplice e rettilineo verso l’obiettivo è, appunto, un sogno: è la consapevolezza del dubbio, dell’incertezza che rende possibili le deviazioni di rotta e i cambiamenti.

Solo la capacità di dubitare ci permette di apprendere attraverso gli errori: purché sappiamo giustamente riconoscerli come errori, (errori, non fallimenti) e non li attribuiamo al fato, alla sfortuna, alla altrui malvagità.

Altra cosa, e negativa, è invece il restare invischiato (quando non crogiolarsi) nei propri dubbi: una situazione che, più che indicare saggezza nelle decisioni, denota il desiderio impossibile di controllare e di prevedere tutto, il sogno (o il delirio) di non sbagliare mai.

Il termine “cacadubbi”, forse un po’ volgare ma espressivo, non è precisamente un elogio della saggia prudenza.

Per muoversi nel mondo reale la ragione è una bussola necessaria ma non sufficiente: in genere va associata al “come se”.  Il congiuntivo non è pertanto antiscientifico: al contrario, sono proprio i negatori della scienza e della ragione quelli che più spesso usano esprimersi all’indicativo.