Intervista a Danielle Ofri

di M.Bobbio

Medico internista a New York, scrittrice, redattrice e suonatrice di violoncello, Danielle Ofri viene presentata al pubblico italiano da Il Pensiero Scientifico editore che ha tradotto il libro “Cosa dice il malato. Cosa sente il medico” con la prefazione di Guido Giustetto, presidente dell’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri della provincia di Torino.

Un libro di storie che ripercorrono le difficoltà di costruire una positiva comunicazione tra medici e pazienti; tale carenza può impedire di giungere alla diagnosi e di individuare la terapia adeguata. La capacità narrativa della Ofri consente di leggere il libro come una raccolta di avvincenti racconti. Nel suo sito si possono trovare i libri precedenti, recensioni e conferenze.


Danielle Ofri intervistata da Marco Bobbio

Febbraio 2018

Le storie che racconti concordano nel sottolineare come spesso i medici non capiscano cosa dicono i pazienti e viceversa. Pensi che medici e pazienti siano consapevoli che questa è la principale ragione per cui è così difficile comunicare e per cui moltevisite si concludono in modo insoddisfacente?

Pazienti e medici sono insoddisfatti della maggior parte delle visite, ma di solito ritengono che ciò dipenda dalla limitazioni del tempo a disposizione per una visita, più che da un difetto di comunicazione. In parte perché entrambi pensano che la comunicazione sia solo una forma di buona educazione. Una delle ragioni per cui ho scritto “Cosa dice il malato, cosa sente il medico” è appunto per sottolineare il fattoche la buona comunicazione tra medico e paziente è lo strumento più importante che deve essere garantito. I medici devono prestare attenzione alla comunicazione e i pazienti devonoaspettarsi che venga perseguita  (edevono anche pretenderla, se necessario)

Per comunicare con i pazienti bisognerebbe disporredi molto tempo a diposizione, mentre le visite si possono svolgere in un lasso di tempo comunque limitato. Non pensi che sarebbe importante insegnare ai medici a investire più energie sucomeinstaurare una buonacomunicazione con i pazienti piuttosto che sul tipo di informazione, in modo da rendere esauriente anche una visita di breve durata?

Assolutamente! La triste verità è che non abbiamo mai ‘abbastanza’ tempo, cosicché dobbiamo trovare il modo di essere efficienti nelbreve tempo a diposizione. Abbiamo imparato chelasciar parlare un paziente senza interromperlo è, in modo contro intuitivo, una delle strategie più efficienti per giungere alla diagnosi in modo rapido e accurato.

Il dottor House, il simbolo dell’arroganza professionale, dice: “Sono diventato medico per curare le malattie e non i pazienti” e “Preferiresti essere operato da un chirurgo esperto e da uno empatico?”Pensi che questo modo di pensare sia condiviso da molti medici?

Si, questo è un modo comune di pensare. Ma non ritengo che competenza e compassione debbano essere mutualmente esclusive. Non dobbiamo accontentarci di nulla di meno rispetto a medici con entrambe le caratteristiche.

Nel libro sottolinei alcune volte quanti dati utilizzino i medici per spiegare i risultati di un intervento o per illustrare la necessità di cambiare lo stile di vita e quanto poco questi dati siano capiti dai pazienti. Paul Kalanithy nel libro “Quando il respiro si fa aria” (Mondadori) a un certo punto dice: “A quel punto avevo imparato un paio di regole fondamentali. Primo, le statistiche dettagliate vanno bene per le aule di ricerca, non per le stanze d’ospedale”.Non pensi che alcune difficoltà di comunicazione tra medici e pazienti dipendano dalla contrapposizione tra una visione quantitativa dei primi e qualitativa dei secondi?

Sono una grande sostenitrice dell’evidence-based medicine e penso che l’uso dell’NNT (numero di pazienti necessario da trattare) sia estremamente importante per assumere decisioni terapeutichee per far progredire le conoscenze. Quando però ti trovi al letto dell’ammalto e in ambulatorio l’unico dato che  interesse è  l’N of 1 (NdT:  questa sigla indica una ricerca clinica svolta su un singolo paziente, adottando una rigorosa metodologia, in grado di valutare l’efficacia di un trattamento). Devi rispondere a quel singolo paziente che a te si rivolge e a te chiede “Dottore, andrà tutto bene?” Dobbiamo sempre ricordarcelo.

La tua collega Victoria Sweet nel suo recente libro Slow medicine – A way to healing dice: “Ho presto imparato che la cosa più importante consiste nel vedere il mio nuovo paziente appena viene ricoverato, anche prima di aver dato un’occhiata alla cartella clinica o aver parlato con I parenti… Posso  infatti vedere  se è pulito o sporco, se è triste o felice, spaventato, ansioso o tranquillo”. Non credo si tratti solo di formale gentilezza, ma di arrivare al cuore di una relazione clinica. Pensi che i medici siano consapevoli che il primo contatto è cruciale per impostare una relazione positiva e duratura?

Creare una connessione forte e di fiducia non è solo la cosa giusta da fare sul piano umano,ma è anche la cosa giusta da fare da un punto medico, in termini di diagnosi e di trattamento. La relazione che instauri con il tuo paziente è come un investimento in banca. Renderà la tua valutazione più efficiente, più corretta (e più piacevole!) e ti aiuterà in seguito, dal momento che il tuo paziente sarà più propenso a descrivertiaspetti che si riveleranno cruciali per individuare un adeguato trattamento.

Nella tua duplice veste di medico e di suonatrice di violoncello, hai fatto un confronto tra gli aspetti tecnici e artistici in musica e in medicina.

Una caratteristica del violoncello (e di tutti gli archi) è che le note non sono definite come nel piano o nel flauto. Puoi solo dire che hai ottenuto la nota esatta imparando ad ascoltare con molta attenzione, fino a quando riesci a ottenerla. Devi ‘acuire’ l’udito. Secondo me, c’è un forte parallelismo tra musica e medicina. I nostri pazienti non entrano nell’ambulatorio con la diagnosi scritta in fronte. Dobbiamo imparare ad ‘acuire’ il nostro udito per capire cosa c’è che non va e anche per offrire l’empatia indispensabile per la guarigione.

I medici pensano che il loro lavoro consista nel fare la diagnosi corretta, nel prescrivere un trattamento evidence-based, nell’eseguire un intervento senza difetti. Di solito non tengono in considerazione gli altri aspetti della vita del paziente, legati all’intersezione tra la malattia e la vita personale, familiare e sociale. I medici che si sono ammalati e hanno vissuto l’esperienza dalla parte dei pazienti si lamentano sempre come i loro ex-colleghi manchino di umanità. Come possiamo cambiare questa attitudine?

E’ certo che quando un medico diventa paziente capisce all’improvviso quanto sia importate l’aspetto umanistico della medicina. Certamente non ci auguriamo che gli studenti di medicina e i medici si ammalino solo per poter capire questo aspetto. Un modo per far loro afferrare il problema consiste nel farli riflettere su come hanno affrontato la malattia di un genitore, di un nonno  anziano o di un giovane figlio. Se si soffermassero a pensare che tipo di attenzioni avrebbero voluto avere per i loro cari, potrebbero capire che non possono continuare a comportarsi come automi competenti.In quelle circostanze i medici hanno l’opportunità di comprendere la necessità di affidarsi a un collega saggio, competente ed empatico.

Nella tua esperienza pensi che una relazione di per sépuò essere un antidoto per ridurre le denunce per malasanità e per arginare la medicina difensiva?

Ne sono profondamente convinta. Dal momento che non disponiamo di pallottole magiche, una buona relazione e un’eccellente capacità comunicativa sono il miglior modo ridurre i contenziosi legali (se si valutanoi dati che riguardarono le denunce, almeno negli Sati Uniti, si osserva che la maggior parte è la conseguenza di una cattiva comunicazione. Solo una piccola percentuale di denunce riguarda casi di pura negligenza medica).

Slow Medicine si batte per una medicina sobria, rispettosa e giusta. Rispetto alla tua esperienza professionale, pensi che l’aggettivo ‘slow’ sia necessario, dal momento che la pratica della medicina, almeno quella che hai studiato e hai praticato all’inizio della tua professione, dovrebbe ispirarsi a quei tre aggettivi?

Il termine ‘slow’ mi ha sempre disturbata perché mi rimanda al concetto di pigrizia. Forse il termine “medicina riflessiva” potrebbe essere più adatto.


Danielle Ofri, MD, PhD

www.danielleofri.com