Vi proponiamo l’intervista di Lidia Goldoni ad Antonio Bonaldi, apparsa sul sito perlungavita.it, sulle attività e i principi di Slow Medicine e Choosing Wisely Italy.

 

Lei è Presidente di Slow Medicine. Può presentarci questo movimento, come nasce e con quali obiettivi?

Slow medicine nasce a Torino, nel 2010, da un gruppo di amici che da tempo sentivano crescere il disagio per una medicina troppo prona alle leggi del mercato, troppo incline a pensare che fare di più sia sempre meglio e che nella tecnologia vi sia la risposta a tutti i nostri bisogni di salute. Una medicina impegnata in una corsa insensata verso la medicalizzazione di ogni aspetto della vita: dalla nascita, alla crescita, fino alla vecchiaia e alla morte.

Per uscire da questa pericolosa spirale abbiamo pensato che prima di tutto era necessario allontanarsi da una concezione del tempo che esalta la velocità, la crescita, i consumi, la quantità, l’accumulo. Da qui il termine slow. Essere slow significa riappropriarsi del proprio tempo e ritornare in sintonia con i ritmi fisiologici della natura e della vita (Il tempo della vita è slow). Significa ritrovare il tempo per ascoltare, per riflettere e per osservare anche ciò che succede al di fuori del ristretto ambito d’azione entro il quale concentriamo il nostro momentaneo interesse.
Abbiamo poi cercato di caratterizzare Slow Medicine con tre parole chiave attraverso le quali si possono identificare i nostri principali concetti di riferimento. Sobrietà: fare solo ciò che serve, attenendosi alle migliori conoscenze scientifiche. Rispetto: tener conto che la persona è più delle cellule, degli organi e degli apparati di cui si compone. Giustizia: assicurare a tutti l’accesso a servizi sanitari appropriati e di buona qualità.

Slow medicine promuove il progetto Fare di più non significa fare meglio – Choosing Wisely Italy. Rinviamo al sito per maggiori informazioni, ma potrebbe illustrarcelo e segnalarci le modalità adottate, i soggetti coinvolti, i risultati raggiunti. In particolare quale ruolo gioca SM nella stesura delle raccomandazioni e lo spazio e il coinvolgimento dei cittadini?

Fare di più non significa fare meglio – Choosing Wisely Italy è certamente il progetto che ha avuto più successo e per il quale siamo conosciuti. Esso prende avvio nel 2012 negli Stati Uniti ed è oggi diffuso in 22 Paesi, afferenti a cinque continenti. Il progetto nasce dalla constatazione che la medicina è pervasa da tantissime prestazioni inutili, inappropriate e perfino dannose. Da qui l’appello lanciato ai professionisti perché siano loro, in prima persona, ad assumersi la responsabilità d’intervenire. Alcune Società scientifiche hanno subito risposto all’invito e hanno individuato, nell’ambito della loro specialità, 5 procedure di uso corrente (le cosiddette Top5) di cui i professionisti dovrebbero parlare con i pazienti dato che spesso sono utilizzate in modo inappropriato. Oggi, in Italia, 44 società scientifiche hanno definito 230 pratiche sanitarie relative a test diagnostici, procedure terapeutiche e farmaci di cui spesso si abusa, come, per esempio: l’esecuzione routinaria di esami radiologici del rachide in caso di lombalgia; la prescrizioni di farmaci gastro-protettivi (inibitori di pompa protonica) senza specifiche indicazioni; l’uso indiscriminato di benzodiazepine per l’insonnia; l’impiego della nutrizione artificiale nei pazienti con demenza in fase avanzata.
Le società scientifiche e le associazioni che aderiscono a Choosing Wisely lo fanno in modo del tutto volontario (noi non sollecitiamo nessuno) e si assumono la diretta responsabilità di quello che decidono. C’è un gruppo di regia (dove sono rappresentati anche i pazienti) che ne attesta la coerenza rispetto ad alcune predefinite indicazioni di metodo. Società scientifiche e associazioni sono un mondo variegato e il grado di coinvolgimento dei cittadini e dei pazienti è molto diverso. Abbiamo messo a punto alcuni documenti di metodo (si possono trovare sul sito), le raccomandazioni sono state inserite tra “Buone Pratiche Cliniche” dell’Istituto Superiore di Sanità e nel data-base internazionale di EBSCO, ma il cammino è ancora lungo, tortuoso e probabilmente senza fine, ma non senza scopo.
Alcune di queste pratiche sono state poi riprese da Altroconsumo, che ha preparato una ventina di schede specificamente rivolte ai pazienti e ai cittadini allo scopo di aiutarli a scegliere con saggezza, come per l’appunto ricorda il nome del progetto. Chi è interessato può scaricare gratuitamente l’apposita App.

Dopo le presentazioni vorrei entrare nel merito di alcuni temi che ci interessano. La pagina Perlungavita.it, la bacheca Facebook omonima, sono impegnate in questi mesi – su sollecitazione ed interesse sia di chi vi scrive, sia dei lettori – ad approfondire due componenti determinanti per la salute e il benessere dei vecchi, uomini e donne: uso (ed abuso) dei farmaci e degli esami, sia a domicilio che nei servizi residenziali e la differenza di genere (che non è solo il sesso, maschile e femminile) nella sua complessità derivante anche dalla nostra cultura. Il recente rapporto AIFA è punto di riferimento e conferma. PLV ha raccolto anche un’intervista a Marco Bobbio, segretario generale di SM, sul suo libro “Troppa medicina”. L’obiettivo è di andare oltre “ la de-prescrizione” per parlare di cura raccogliendo contributi da esperienze professionali e personali diverse. Slow Medicine e questa mano operativa del “Fare di più non …”cosa e quali consigli, suggerimenti ed indicazioni può darci?

Basta dare un’occhiata alla letteratura scientifica per rendersi conto che una parte consistente di ciò che viene utilizzato nella pratica clinica corrente potrebbe essere evitato a tutto vantaggio dei pazienti.
Sappiamo, per esempio, che i vari test eseguiti a persone in buona salute per individuare precocemente una malattia (check-up) non servono a nulla, che eseguire il PSA non cambia la mortalità per cancro della prostata sebbene aumenti il numero dei tumori trattati, con tutte le relative complicanze. Sappiamo che gran parte delle artroscopie eseguite nei pazienti con artrite del ginocchio potrebbero essere evitate, che impiantare uno stent cardiaco nei pazienti che soffrono di angina non da migliori risultati rispetto ai pazienti che sono sottoposti ad un finto intervento. Sappiamo che integratori e vitamine (a parte rari casi) non offrono alcun vantaggio per la salute e così potremmo continuare a lungo passando per ogni ambito specialistico.
Si badi bene che la questione non è semplicemente un problema di natura economica, riguarda la salute delle persone. Ci sono crescenti prove, infatti, che da un eccesso di prestazioni diagnostiche, di trattamenti farmacologici e di interventi chirurgici ne conseguono seri danni per la salute delle persone. (Vera e falsa prevenzione). Oltretutto questi interventi consumano risorse che limitano l’accesso a cure efficaci come le cure odontoiatriche, i servizi domiciliari per malati cronici e le cure palliative per pazienti terminali.
Si pone quindi un serio problema di natura etica che chiama in causa direttamente i medici, a cui compete la responsabilità di mettere in atto le iniziative capaci di ridurre l’eccesso di prestazioni inappropriate e dannose.
Il problema, tuttavia, non riguarda solo i medici. Certo, la prescrizione si compie durante l’incontro tra medico e paziente, ma questo rappresenta solo l’ultimo anello di una lunga catena di eventi che coinvolgono l’intero contesto organizzativo, sociale e culturale di riferimento. La prescrizione non dipende solo dalle immediate circostanze entro le quali si compie. Essa è inserita in un complesso sistema di fattori che interagiscono e determinano ciò che è fattibile, ciò che è ritenuto desiderabile e importante, ciò che deve essere incoraggiato o evitato.
Uno di questi fattori riguarda le nostre conoscenze. La medicina ha certamente conseguito straordinari successi, ci consente di vivere meglio e più a lungo ma onestamente dobbiamo ammettere che molti aspetti relativi alla salute e al modo in cui le malattie si manifestano e si curano restano tuttora sconosciuti. La nostra ignoranza si estende  dalle patologie che minacciano la vita (i tumori, i disturbi del metabolismo, le patologie mentali e neurologiche, le malattie rare) sino ai piccoli disturbi e i vaghi malesseri privi di base organica (Medical Unexplained Symptoms) di cui la nostra esistenza è intrisa e per i quali ciascuno di noi sa trovare semplici e ingegnosi espedienti, trucchi e rimedi antichi o moderni che non raramente, almeno per il diretto interessato, sembrano funzionare. Basti ricordare che il 90% delle persone riferisce che nell’ultima settimana ha sofferto di sintomi verso i quali la medicina è alquanto impotente: mal di schiena, affaticamento, mal di testa, congestione nasale, disturbi del sonno, dolori articolari o muscolari, irritabilità, ansietà, perdita di memoria e via discorrendo.
I pazienti però sono convinti che la medicina sia una scienza esatta e che possa guarire tutti i mali. I pazienti pretendono di dare un nome ai sintomi e ai disturbi che li affliggono, vogliono sapere la causa dei loro malanni, chiedono cure efficaci, comprensione e prospettive di guarigione.
Così, i medici, di fronte ai problemi che non possono gestire con l’aiuto della scienza, coerentemente con ciò che è stato loro insegnato e con ciò in cui  la gente ripone la propria fiducia, non possono far altro che prescrivere esami, farmaci e interventi chirurgici, anche quando non ce ne sarebbe bisogno, quando non servono a nulla e possono essere dannosi.
C’è poi un secondo elemento che induce un eccesso di prestazioni sanitarie: l’illimitata fiducia che la gente ripone nella tecnologia e nell’idea che fare di più sia sempre meglio, sopravvalutando gli effetti positivi e sottovalutando i rischi associati alle prestazioni sanitarie. Di fatto, ciò che produce cultura e orienta i comportamenti non sono le pubblicazioni sulle riviste scientifiche, che sono lette da pochi esperti del settore, ma quello che riportano i mezzi di comunicazione (stampa, media, social network, blog), dove spesso prevale ciò che fa notizia, che incuriosisce, intriga, fa clamore, emoziona.
Così, nel tentativo di eliminare la paura della malattia, della vecchiaia e della morte affidiamo il nostro destino alla medicina, alla tecnologia, agli specialisti, alle istituzioni e pur aspirando all’immortalità siamo disposti a barattare la vita in cambio della promessa di piccoli vantaggi, soprattutto quando diventiamo più fragili, insicuri e bisognosi di aiuto.
Con questo non voglio assolutamente dire che la medicina sia inutile e che non ci si debba curare, voglio solo suggerire di essere più accorti, di acquisire un atteggiamento di sano scetticismo verso ciò che ci viene proposto per il nostro bene e per la nostra sicurezza e di riflettere su ciò che è importante per noi e che rende le nostre vite degne di essere vissute prima di decidere.

Essendo un sito dedicato alla vecchiaia Per lunga vita si confronta continuamente con le malattie dementigene, anche se queste, ci si rende conto, colpiscono soggetti sempre più giovani, o meglio, si inizia a riconoscerle anche negli adulti. Parlare di demenze, di diagnosi precoce, di farmaci richiede di interrogare non solo la medicina nell’accezione tradizionale, ma il sistema sanitario, i servizi, la complessità della cura e di dare forma al concetto di “centralità della persona” che in questa circostanza è spesso bifronte: paziente e caregiver. È entrato questo tema nei lavori di SM?

Il concetto di centralità della persona è uno dei principi fondativi di Slow Medicine. Per essere dei bravi medici non basta, essere dei valenti scienziati. La cura infatti, è il risultato dell’interazione tra due forme diverse di conoscenza. Da un lato c’è la scienza che ci aiuta a dare un nome ai sintomi, alle malattie di cui soffriamo, a individuare le cure disponibili e a quantificare i benefici e i rischi associati alle diverse alternative disponibili. A questo fine si avvale di numeri, medie e statistiche ben sapendo, peraltro, che l’uomo medio semplicemente non esiste.
Nella vita e nella medicina in particolare c’è, però, un ampio spazio di conoscenza che non è scientifico. È il lato umanistico della medicina, il sapere che sgorga dalla vita, in cui si combinano esperienze, valori, sentimenti, emozioni di cui solo la singola persona può disporre e che si alimenta di parole, racconti, metafore, fattori psicologici, spirituali e sociali. È l’incontro di questi due mondi che attiva e consolida la relazione di cura e consente di riconoscere e valorizzare le potenzialità del paziente e del contesto familiare e sociale che lo circonda, soprattutto quando si devono affrontare i problemi relativi alla cronicità, dove il paziente è il principale artefice del suo benessere.

È sempre una domanda personale a cui chiediamo di rispondere come Antonio Bonaldi e non solo come Presidente di SM. Lei ha un’esperienza professionale di sanità pubblica e di direzione  dei servizi sanitari. Se dovesse scrivere una raccomandazione per la salute dei vecchi (uomini e donne) quali raccomandazioni stilerebbe e quali pratiche  cambierebbe/ abolirebbe immediatamente?

Beh, visto che da qualche anno godo degli sconti riservati agli anziani per l’ingresso al cinema e ai musei, pur non sentendomi ancora vecchio posso parlare delle raccomandazioni che faccio a me stesso, ma so bene che ognuno di noi è diverso e che potrebbero sembrare assolutamente banali.
Da parte mia, in primo luogo vorrei raccomandare di abbandonare l’idea che la nostra salute dipende dalla medicina e dal numero di esami che facciamo periodicamente per sentirci dire che stiamo bene o male. Certo, la medicina è importante, ma la salute riguarda la vita in tutti i suoi aspetti. Per questo vorrei suggerire di non smettere mai di essere curiosi; coltivare qualche hobbies; costruire relazioni empatiche; abbandonare la fretta; agire con sobrietà; evitare le situazioni di rischio senza però farci sopraffare dalla paura; accettare l’idea che la vita porta con sé una quota ineliminabile d’incertezza e di mistero con i quali dobbiamo saper convivere; sbarazzarci della preoccupazione che potremmo ammalarci; imparare a riconoscere i segnali che ci invia il nostro corpo e a capire ciò che ci aiuta a star meglio, piccole cose di cui magari solo noi ne percepiamo l’importanza, senza lasciarci lusingare da chi promette cure miracolose.
Se poi per avventura potessi abolire qualcosa inizierei con i check-up, con gli integratori e con tutte le raccomandazioni che lentamente, in nome della sicurezza, tolgono agli anziani la gioia di vivere, ma soprattutto abolirei immediatamente le leggi che pretendono di impadronirsi della nostra vecchiaia e della nostra vita, di imporci scelte che non corrispondono ai nostri valori e al nostro modo di sentire, che ritengono di doverci ancorare indefinitamente alla vita, anche quando è venuto il momento di abbandonarla.
I medici, come ci ricorda  Atul Gawande (Essere Mortale, Einaudi 2016 qui la presentazione su PLV) devono imparare non solo a salvare le vite ma anche a prendersi cura di come finiscono.