Coltivare la salute

La salute, secondo Slow Medicine, è il miglior equilibrio possibile tra aspetti diversi della vita: biologico, psichico, spirituale, sociale, ambientale; ora prevale uno ora l’altro di essi, ma sono sempre tutti quanti presenti e interagenti. Questa costante oscillazione, questo equilibrio dinamico, mai definitivo o immobile, è il contesto proprio dei sistemi viventi.

 

Nella nostra cultura due sono i principali interventi impiegati per difendere la salute: trattare le patologie in atto con opportune terapie e condurre una vita sana, possibilmente in un ambiente da cui siano rimossi gli elementi patogeni.

Entrambi questi interventi richiedono la presenza di un esperto competente che prescrive le terapie, definisce cosa è una vita “sana”, individua gli elementi ambientali dannosi da rimuovere; spetta poial paziente, al cittadino mettere disciplinatamente in atto le indicazioni ricevute.

Un modello che indubbiamente funziona, eppure in qualche modo incompleto. La medicina così intesa è efficace nel riparare i danni e nel ridurne le cause accertate ma resta appunto centrata sui danni che solo un esperto è in grado di individuare e riparare.

La salute però non è solo riparazione o prevenzione di guasti: la salute è uno stato dinamico di equilibrio che occorre continuamente costruire; equilibrio che è possibile trovare anche nel corso delle più gravi malattie. In altre parole è possibile individuare elementi di “salute” in  tutti i momenti della vita, anche i più sfavoriti: non esistono insomma situazioni “senza speranza”; una speranza di maggior benessere, anche se minimo, esiste sempre.

Il medico allora non somiglia più a un “meccanico” che aggiusta come può un meccanismo rotto: somiglia invece a un giardiniere, a un coltivatore che si pone in relazione non con un oggetto guasto ma con un essere vivente.

Il meccanico esamina con attento distacco l’oggetto per individuare il guasto; l’oggetto in questione resta neutro, non gli “parla”, non interagisce.
Ben diverso è il rapporto del coltivatore con la pianta.

Se una macchina si rompe non può aggiustarsi da sola; se una pianta viene danneggiata o ferita essa può in larga misura curare e guarire se stessa senza interventi esterni (la vis medicatrixnaturae).

Se una pianta segnala sofferenza il giardiniere non si precipita a sovraccaricarla di interventi, di rimedi, di pesticidi ma comincia col domandarsi (e a domandarle!): “Di cosa ha bisogno? Più sole? Più ombra? Più acqua? Un terriccio diverso? Nutrimento? Eliminazione di parassiti?

E poi la domanda più importante di tutte: “Quali sono le sue risorse naturali che possono venire esplorate e incentivate?”

Gli interventi non emergono quindi dal giardiniere ma  dalla relazione della pianta col giardiniere. Talvolta è la pianta stessa a suggerirglieli, talaltra è lui a proporli in base a ciò che osserva e conosce.

La pianta sa cose che il giardiniere ignora. La relazione tra i due è la “cura” e, come ogni relazione, non è “scientifica” (non è ripetibile, è variabile, è modificata dal contesto e dal tempo, non è riproducibile, non è misurabile…); non è inoltre puramente “razionale” (contiene in larga misura emozioni).

In questo contesto “coltivare” significa anche “coltivarsi”: la relazione di cura costruisce salute, cioè equilibrio, armonia, scambio, reciprocità per il coltivatore e non solo per la pianta.

 

Giorgio Bert, 1 marzo 2017